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Quando ero piccola, a volte passava sulla spiaggia un vecchio matto e vagabondo che chiamavano Búzio.
Búzio era come un monumento manuelino: tutto in lui ricordava cose marittime. La sua barba bianca e ondulata era uguale a un’onda di schiuma. Le grosse vene blu delle sue gambe erano uguali alle cime di una nave. Il suo corpo pareva un albero maestro e la sua andatura ondeggiava come quella di un marinaio o di una barca. I suoi occhi, come il mare stesso, ora erano azzurri, ora grigi, ora verdi, e a volte li ho visti perfino viola. E portava sempre nella mano destra due conchiglie. Erano di quelle conchiglie bianche e grosse con cerchi brunastri, semitonde e semi-triangolari, che hanno un foro all’apice della parte triangolare.
Búzio passava un filo attraverso dei fori, legando così le due conchiglie l’una all’altra, in modo da formare con esse delle nacchere. Ed era con queste nacchere che scandiva il ritmo dei suoi lunghi discorsi cadenzati, solitari e misteriosi come poesie.
Búzio appariva in lontananza. Si vedeva crescere dai confini delle spiagge e delle strade. All’inizio si pensava che fosse un albero o una roccia distante. Ma quando si avvicinava si vedeva che era Búzio. Nella mano sinistra portava un grosso legno che fungeva da bastone ed era il suo sostegno nelle lunghe passeggiate e la sua difesa contro i cani rabbiosi delle ville. A questo bastone era attaccato un sacco di stoffa, dentro il quale teneva i pezzi di pane che gli davano e le monetine. La borsa era di calicò rattoppato e così sbiadita che era quasi diventata bianca.
Búzio arrivava di giorno, circondato di luce e di vento, e due passi davanti a lui veniva il suo cane, che era vecchio, biancastro e sporco, con il pelo folto, riccio e lungo e il muso nero. Veniva da oltre le strade col sole in faccia e le ombre tremolanti delle foglie dei platani nelle mani. Si fermava davanti a una porta e cantava la sua lunga melodia, ritmata dal suono delle sue nacchere di conchiglie. La porta si apriva e appariva una domestica in grembiule bianco, che gli porgeva un pezzo di pane e diceva:
- Vattene, Buzio.
E Búzio, lentamente, toglieva il sacco dal suo bastone, scioglieva le corde, apriva il sacco e riponeva il pane. Poi di nuovo proseguiva. Si fermava sotto una veranda cantando, alto e diritto, mentre il cane annusava dintorno. E dalla veranda qualcuno si chinava in fretta, così in fretta che il suo viso nemmeno si vedeva, e gli lanciava una monetina e diceva:
- Vattene, Buzio.
E Búzio lentamente – così lentamente che ogni suo gesto si vedeva – toglieva il sacco dal bastone, scioglieva i lacci, apriva il sacco, riponeva la monetina, e di nuovo lo chiudeva, lo legava e lo appendeva. E proseguiva con il suo cane.
C’erano molti poveri nel paese che apparivano il sabato in greggi brunastri e tragici, e che chiedevano l’elemosina alle porte e facevano pena. Erano ciechi, zoppi, sordi e matti, erano tisici che sputavano sangue sui loro cenci, erano mamme magre di bambini quasi verdi, erano vecchie incurvate e piangenti con le gambe incredibilmente gonfie, erano ragazzini che mostravano piaghe, braccia storte, mani tagliate, lacrime e disgrazia. E sopra il gregge aleggiava un mormorio inquieto di gemiti, denunce, preghiere e lamenti. Ma Búzio appariva solo, non si sapeva in che giorno della settimana, era alto e dritto, ricordava il mare e i pini, non aveva nessuna ferita e non faceva pena. Avere pena di lui sarebbe come avere pena di un platano o di un fiume, o del vento. In lui sembrava abolita la barriera che separa l’uomo dalla natura.
Búzio non possedeva niente, come un albero non possiede niente. Viveva con la terra che era lui stesso. La terra era sua madre e sua moglie, sua casa e sua compagnia, suo letto, suo alimento, suo destino e sua vita. I suoi piedi nudi sembravano ascoltare il suolo che calpestavano.
Ed è così che l’ho visto apparire quella sera in cui giocavo da sola in giardino. La nostra casa stava sulla spiaggia. La parte davanti, rivolta verso il mare, aveva un giardino di sabbia. Nella parte dietro, rivolta a est, c’era un piccolo giardino agreste e non curato, con il terreno ricoperto di piccole pietre sparse, che rotolavano sotto i passi, un pozzo, due alberi e qualche cespuglio arruffato dal vento e bruciato dal sole.
Búzio, che arrivò dal lato di dietro, aprì il cancello di legno, che rimase a oscillare, e attraversò il giardino, passando senza vedermi. Si fermò davanti alla porta di servizio e al suono delle sue nacchere di conchiglie si mise a cantare. Quindi aspettò un po’ di tempo. Poi la porta si aprì e dal suo angolo buio apparve un grembiule.
Visto da fuori, l’interno della casa sembrava misterioso, scuro e luminoso. E la domestica porse del pane e disse:
- Vattene, Buzio.
Poi chiuse la porta. E Búzio, senza fretta, lentamente, come disegnando nella luce ogni suo gesto, tirò le corde, aprì il sacco, tornò a legare il sacco, l’appese al bastone e proseguì col suo cane. Poi fece il giro della casa, per uscire di fronte, dalla parte del mare.
Così decisi di seguirlo. Attraversò il giardino di sabbia ricoperto di salici piangenti e gigli di mare e camminò tra le dune. Quando raggiunse il punto in cui inizia la curva della baia, si fermò. Lì era un luogo già selvaggio e deserto, lontano da case e strade.
Io, che l’avevo seguito da lontano, mi avvicinai nascosta nelle ondulazioni della duna e mi inginocchiai dietro un monticello tra le erbe alte, trasparenti e secche. Non volevo che Búzio mi vedesse, perché volevo vederlo senza di me, da solo.
Era poco prima del tramonto e ogni tanto passava una brezza leggera. Dall’alto della duna si vedeva la sera tutta come un enorme fiore trasparente, aperto e esteso fino ai confini dell’orizzonte. La luce ritagliava a una a una tutte le incavature della sabbia. L’odore nudo della salsedine, profumo pulito del mare senza putrefazione e senza cadaveri, penetrava ogni cosa. E per tutta la lunghezza della spiaggia, da nord a sud, a perdita d’occhio, la bassa marea mostrava le sue rocce scure ricoperte di buccine e alghe verdi che ritagliavano le acque. E dietro di esse, si infrangevano incessantemente, bianche e arrotolate e srotolate, tre file di onde che, continuamente disfatte, continuamente si ri-innalzavano.
Dall’alto della duna Búzio stava con la sera. Il sole si posava sulle sue mani, il sole si posava sul suo viso e sulle sue spalle. Rimase in silenzio per un po’, poi lentamente cominciò a parlare. Capii che parlava con il mare, poiché lo guardava di fronte e gli tendeva le mani aperte, con i palmi a conchiglia rivolti verso l’alto. Era un lungo discorso chiaro, irrazionale e nebuloso che sembrava, con la luce, ritagliare e disegnare tutte le cose. Non posso ripetere le sue parole: non le ho memorizzate e questo è successo molti anni fa. E inoltre non compresi bene quello che disse. E alcune parole non le ho nemmeno udite, perché il vento veloce gliele strappava di bocca. Ma ricordo che erano parole modulate come un canto, parole quasi visibili che occupavano gli spazi dell’aria con la loro forma, la loro densità e il loro peso. Parole che chiamavano le cose, che erano il nome delle cose. Parole brillanti come le squame di un pesce, parole grandi e deserte come spiagge. E le sue parole riunivano i resti dispersi della gioia della terra. Egli li invocava, li mostrava, li nominava: vento, freschezza delle acque, oro del sole, silenzio e splendore delle stelle.


Sophia de Mello Breyner Andresen, “Homero”, in “Contos Exemplares”, Assírio e Alvim.
Traduzione dal portoghese di Roberto Maggiani.

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